Guerrieri oggi? Il Tai Ji Quan alla ricerca di un’identità e di una funzione nel mondo di oggi…….

Il Taiji Quan si colloca in un territorio piuttosto indefinito fra le discipline marziali e di combattimento da un lato e  i percorsi di crescita personale e spirituale a mediazione corporea dall’altro;  dato che l’offerta in questi campi è vastissima e ricca di metodi di comprovata efficacia è lecito chiedersi quale sia la “vocazione” o “missione” propria del Taiji che possa definirne una specifica identità e riconoscibilità. Per rispondere a questa domanda la via più diretta è partire dalla definizione che il Taiji ha dato di se stesso negli scritti originali ai quali a tutt’oggi possiamo fare riferimento se ammettiamo che al TaiJi Quan, in virtù del suo setting didattico caratteristico,  vada riconosciuta la qualifica di “Arte Marziale”……..

Che cos’è un’Arte Marziale?

Questo termine viene spesso usato per attribuire un carattere nobile ed elevato a talune discipline che vengono impiegate con uno scopo prevalente di evoluzione della persona, in termini fisici e psicologici,  per distinguerle in termini qualitativi da metodi di combattimento finalizzati maggiormente allo sport o alla difesa personale. In realtà, se ci atteniamo al significato originario latino del termine, per “arte” dovremmo intendere qualunque “Saper Fare” che abbia raggiunto, attraverso lo studio e la pratica, un livello elevato, analogamente a quanto si intende in cinese con il termine “Gong Fu” (Kung Fu). Questo saper-fare si può esprimere a livello artistico, a livello di mestieri pratici (come l’”Arte della riparazione della motocicletta”) o discipline intellettuali e, naturalmente, nel dominio di Marte, ovvero nel contesto della guerra e del combattimento, e in questo contesto anche in occidente, fin dall’antichità, si è parlato di “arte” del combattere. Propongo pertanto di definire “Arte marziale” qualunque sistema  la cui struttura formale faccia riferimento alla dimensione del combattere e la cui struttura didattica sia strutturata per far crescere in profondità e ampiezza il “saper-fare” dell’allievo intorno a, e in coerenza con, un nucleo portante, o filosofia, specifica di quella particolare disciplina. Lo sviluppo spirituale, come peraltro la salute e la longevità, non è implicito nel concetto di “Arte marziale” anche se è un prezioso valore aggiunto; dipende da quanto ogni specifica disciplina lo pone fra i suoi obiettivi, da quanto e come la sua didattica è strutturata in tale direzione e dalla qualità dell’insegnante che si assume la responsabilità del metodo che propone.

I “Classici del Taiji”,  contenuto e storia.

Quei pochi ma fondamentali testi conosciuti come “Classici del TaiJI”  raccolgono le basi teoriche e i modelli operativi della Disciplina come noi oggi la conosciamo. Possiamo definirli  “codici segreti” il cui significato si dispiega progressivamente al praticante – ricercatore in proporzione al suo livello di evoluzione e di impegno nello studio, non facile, di questi testi.

Tracce scritte del Tai JI come disciplina marziale basata sul lavoro interno (Nei Gong) risalgono almeno al sedicesimo secolo, ma la redazione e pubblicazione dei classici, che spesso nella nostra fantasia siamo portati a proiettare in una non ben precisata remota antichità, è stata portata a termine fra  gli ultimi decenni dell’Ottocento e il primo trentennio del Novecento con il trattato di Yang Chen Fu (1934).

Fu questa un’epoca di profondo mutamento di punti di vista per la civiltà occidentale, si pensi alla teoria dell’evoluzione delle specie di C. Darwin (1858), alla nascita della Psicoanalisi di S. Freud (1895), alla teoria della relatività di A. Einstein (1905) e alla fisica e meccanica quantistica (primo trentennio del Novecento).

Per le grandi civiltà orientali, Cina e Giappone, il cambio di secolo fu un periodo di profonda crisi; l’incontro, spesso scontro, con la civiltà occidentale fece drammaticamente vacillare tutto il loro sistema di valori in un modo che , allora, fu vissuto come irreversibile. E’ in questo contesto che possiamo oggi comprendere il senso dei Classici del Taiji:  uno strumento per salvare e tramandare quanto di meglio la Cina aveva espresso nel campo dell’arte marziale e della disciplina alchemico-spirituale in un modo che fosse compatibile con i profondi cambiamenti sociali e  culturali in corso, facendo del corpo il luogo privilegiato di conservazione ed evoluzione di questo prezioso patrimonio.  Non a caso qualcosa di simile accadde a quell’epoca anche in Giappone con la nascita delle “Vie marziali (Budo)” , in primo luogo Kendo, Judo, Aikido,  dalle arti tradizionali del combattimento (BuJutsu).

Un elemento fondamentale che rese possibile questo prezioso lavoro fu la collaborazione fra riconosciuti maestri di Taiji , spesso illetterati, e intellettuali di alto livello che, studiando con loro, furono in grado di tradurre la loro esperienza in testi ben strutturati e coerenti nei quali si trovano strettamente connessi tecniche di combattimento, metodi di lavoro interno taoista e nozioni di Medicina Tradizionale Cinese . Si pensi ad esempio alla relazione fra Yang Chen Fu e Cheng Man Ching  a cui si deve quasi certamente la stesura dell’opera fondamentale attribuita al suo  maestro.

La crisi della civiltà occidentale e la missione dell’artista marziale

La crisi che la nostra civiltà occidentale sta vivendo oggi non è forse così diversa da quella che, in Cina, portò alla nascita dei Classici del Taiji;  valori e modelli ideali, culturali e sociali che per molti secoli hanno sostenuto il nostro mondo vengono progressivamente smantellati, generando nella maggior parte delle persone una sensazione di profonda insicurezza di cui spesso non si riconosce la ragione e a cui la società non sembra offrire rimedio né prospettive di evoluzione positiva.  Da ciò ecco che sorge la prima possibile missione dell’artista marziale, e in particolare del praticante Taiji raccogliendo il senso profondo dei Classici:  insegnare a ritrovare la sicurezza in se stessi, il che va molto al di là del problema della difesa personale perché coinvolge la ricerca e lo sviluppo di un’Autonomia basata, finalmente, su risorse e leggi interiori che, per il fatto di essere ritrovate nel profondo di sé, possono farci sentire “a casa” con noi stessi nel nostro corpo (“dentro di me, nel mio corpo-mente, io sono al sicuro”) restituendoci con ciò la facoltà di interagire con il mondo che ci circonda e cambia facendo affidamento sulla nostra libertà di pensiero e di azione.

Questa missione implica una delle caratteristiche da sempre attribuite al Guerriero: la solitudine; egli infatti, pur seguendo le tracce affidabili che la tradizione gli offre, è solo nell’ascoltarsi e solo nel decidere delle proprie parole e azioni, consapevole che l’autonomia di pensiero è risorsa preziosa ma rischiosa perché per l’ordine sociale, qualunque esso sia, essa  appare intrinsecamente destabilizzante e difficilmente controllabile.

Civile e Marziale, la doppia coltivazione.

La prima missione dunque riguarda lo sviluppo interiore, ma nei classici del TaiJi è ben presente anche l’aspetto combattivo della disciplina ( il metodo di lavoro interno per allenare e sviluppare una specifica capacità marziale è descritto molto dettagliatamente), nonostante già a quell’epoca lo sviluppo delle armi da fuoco e i cambiamenti sociali avessero reso inattuali, in Cina come in Giappone, le discipline e le armi tradizionali.  Per comprendere pienamente il tema della ”doppia coltivazione” e ciò che può significare per noi viverlo oggi in occidente, al di là della difesa personale e della pratica agonistica, dobbiamo fare un salto transculturale dal TaiJi alle radici più antiche della nostra civiltà indoeuropea riscoprendo e rifacendo nostro il senso profondo, e ancora attuale,  della funzione guerriera come fu idealmente immaginata ai primordi della nostra storia.  Diciamo idealmente perché è improbabile che alcuna società umana sia mai stata esattamente come immaginava o sperava di essere…..

La società trifunzionale

Allora si riteneva che “il mondo e la società potessero sussistere e prosperare soltanto grazie al concorso armonioso delle tre funzioni sovrapposte di sovranità, forza e fecondità” (G. Dumezil)

Al guerriero veniva attribuito il compito di custodire e difendere l’”Ordine”, inteso come quell’insieme di leggi e regole che sorreggono l’universo, dal macrocosmo al microcosmo, così come si esprimono in quel momento;  in effetti già a quell’epoca si riconosceva che “la regola è in costante cambiamento” , dunque il “Giusto” (Sanscrito “Rta”) è ciò che in ogni contesto o fase storica meglio esprime i principi universali di armonia per meglio garantire la salute del mondo e della società.  Oggi non esiste una “Classe sociale dei Guerrieri”, ma ne esiste un’eredità storica e culturale che noi, come artisti marziali, possiamo raccogliere se ne sentiamo la responsabilità. Un praticante di TaiJi non è obbligato ad assumersi questa funzione, né per forza un guerriero deve essere un artista marziale, potrebbe essere un soldato, un poliziotto, un imprenditore  o qualsiasi altra figura sociale, certo è che la funzione guerriera va ben oltre il ruolo istituzionale che ciascuno ricopre e con il quale non è mai in conflitto. Manca anche una qualsiasi forma di sovranità che sia legittimata da quello che con termine tradizionale cinese definiremmo “Mandato Celeste”  e che possa enunciare un “giusto” credibile e sostenibile.

I tre Arcangeli e il pensiero del Cuore

L’unica strada percorribile è attivare in noi stessi quelle tre figure o funzioni (sovranità, forza, fecondità), ben rappresentate dai tre Arcangeli (Gabriele, l’enunciatore della verità, Michele, il difensore, Raffaele, il risanatore) che, già operative a livello biologico (abbiamo infatti regole biologiche che il nostro organismo segue, sistemi e processi che ne proteggono l’operatività, e sistemi e processi riparativi che rimediano ai danni e all’usura) e che possiamo far emergere pienamente anche a livello animico. Il luogo interiore di ascolto è ciò che non solo in Cina ma anche nella nostra tradizione era chiamato  Cuore, qualcosa che va ben oltre l’organo fisico che ne testimonia la presenza: è un atteggiamento di ascolto profondo in cui la coscienza si porta oltre lo strato superficiale dei nostri condizionamenti e modelli reazionali quotidiani e delle nostre convinzioni e credenze abituali. In un grande classico di medicina tradizionale cinese si dice “al centro del cuore vi è ancora un cuore……. In tutti i casi in cui il cuore è occupato da conoscenze formalizzate si perde la vita”  e ancora “Come il cuore può conoscere? Grazie al vuoto, all’attenzione pura che unifica l’essere e grazie alla quiete…… Si dice… che il Cuore è vuoto perché il vuoto non dirige verso le impressioni già tesaurizzate, ma verso ciò che deve essere ricevuto…..Il cuore in fase di riposo sogna; quando è calmo ha un comportamento naturale (Zi Ran, ciò che viene di per sé, per suo impulso intrinseco), quando entra in azione pianifica. Per questo fatto il cuore è sempre in movimento, eppure lo si dice quieto”

Ecco, di nuovo, la solitudine del guerriero che ascolta in profondità la risonanza di ciò che arriva alla sua coscienza, ben oltre l’ideologico e il politicamente corretto, con i quali inevitabilmente si troverà spesso in conflitto; ciò che ne scaturisce, sia pure in forma embrionale, è già azione, si dice infatti: “Quando il Cuore si applica si parlerà di proposito (Yi)”

A questo punto, se riconosciamo al TaiJiQuan la vocazione di Via Marziale, vediamo delinearsi la figura del “Guerriero Taiji” che come taoista nei limiti delle sue capacità fluisce negli eventi rispettandone il ritmo, adattandosi ai cambiamenti, senza opporre resistenza né forzare e tuttavia, quando necessario, prende posizione con forza. Questo prendere posizione, o “porre la Questione” se vogliamo accogliere una tipica espressione delle leggende della Tavola Rotonda, è un’increspatura apparentemente dissonante nel ritmo taoista del “Non agire” (Wu Wei), una sorta di onda anomala, che tuttavia ha la funzione preziosa di “ri-incanalare” o sbloccare il flusso degli eventi verso una direzione più sana.

Per comprendere il significato essenziale del gesto del guerriero dobbiamo rifarci ad uno dei miti più antichi della nostra civiltà indoeuropea, quello della “Liberazione delle Acque” , in cui si parla della sofferenza della Terra, disseccata e isterilita, perché l’Acqua che le dà la vita è bloccata da un’entità, per lo più descritta in modo vago, a volte come un serpente a volte come un’immensa roccia, a volte come un’entità senza forma.  Questo mito è arrivato a noi attraverso il racconto della ricerca del Graal che salverà la “terra guasta e il re ferito”. Questo mito istituisce una connessione inscindibile fra la salute del Re e quella della Terra, si nutrono e si influenzano a vicenda.  Così, dentro di noi, la salute del nostro corpo (la terra) è strettamente connessa a quella della nostra “sovranità interiore”. Contro questa entità il guerriero primordiale, Indra o altra figura analoga, agisce con un colpo decisivo liberando le Acque e restituendo la Vita al mondo. Analogamente nel mito del Graal il re ferito non può risanarsi da solo, ha bisogno di una terza funzione, il cavaliere, che rimetta in comunicazione la terra e il sovrano.

Questo colpo decisivo distrugge un equilibrio stabile ma mortifero, è dunque indispensabile, ma è un gesto di rottura e dunque, in qualche modo, comporta una lesione dell’integrità del Guerriero, come se questo nemico oscuro fosse connesso al guerriero da un implicito legame o fosse addirittura parte di lui. Non dimentichiamo poi che al guerriero era concessa la licenza di uccidere, ovvero di infrangere, e nel modo più grave, quello stesso ordine cosmico che gli era chiesto di difendere.  Ecco allora entrare in gioco la terza funzione, quella risanante, che restituisce al guerriero la sua forza, indebolita dalla “colpa”. Questa terza funzione è quella che attiveremo in noi quando il nostro “prendere posizione” avrà simbolicamente ferito qualcuno o avrà fatto sì che qualcuno ferisca noi.

La natura del Nemico

Il nemico originario di Indra è chiamato in sanscrito Vrtra, che significa essenzialmente “potenza dell’impedimento”, una sorta di immensa massa inerte che per il suo solo esistere si oppone al flusso della Vita. L’Inerzia è il nemico, ciò che rallenta e spegne il flusso della vita intesa nel senso più ampio, quel capitale di energia, vitalità e potenzialità di cui tutti gli esseri dispongono e che vorrebbe  esprimersi pienamente e costantemente. Contro questo nemico universale, che vediamo esprimersi ovunque, a livello culturale, politico, spirituale, sociale,  il guerriero prende posizione, dentro di sé innanzitutto, per sè e per svegliare intorno a sé la volontà di difendere ciò che veramente ha valore.

Il Guerriero Taiji

La vocazione a proteggere e a far fiorire la vita, ancora una volta , va sottolineato, al di là dell’ovvio e del politicamente corretto, cogliendo ciò che avviene sotto la superficie degli eventi e delle parole,  è forse quello che meglio potrebbe oggi caratterizzare il guerriero Taiji, costituendo quella linea sinuosa che separa e unisce armoniosamente lo Yin del “Non agire” con lo Yang della Forza; penetrando attraverso i vuoti, come il macellaio dello Zhuang Zi, sottrae forza all’Inerzia e la usa con decisione per rovesciare l’equilibrio con l’energia dell’esagramma Zhen, la scossa o tuono, che sconvolge, eccita e risveglia.

Ordine e Avventura

Una terza e fondamentale missione del guerriero, strettamente connessa alla precedente, è quella di riportare costantemente vitalità nella società in cui si trova nella misura in cui essa accetta il suo contributo. Questa funzione è ben delineata nella nostra letteratura cavalleresca nel  rapporto che unisce la Corte alle Avventure dei Cavalieri, un reciproco nutrirsi e sostenersi.

La Corte è il luogo della piena luce, dell’Ordine, della Regola condivisa, è armonia dell’Intelletto e delle Emozioni; fuori di lì è la Foresta, il luogo dell’Avventura, della Natura Selvaggia, dell’esplorazione individuale di sé e dei propri limiti, è un “Altro Mondo” dove vigono regole diverse, ogni volta da scoprire. Il cavaliere torna cambiato dalla sua avventura, interiormente più ricco e più forte, e porta questa ricchezza alla Corte per condividerla attraverso il Racconto che dà all’esperienza individuale una forma fruibile dall’intera comunità.

Tale è l’importanza di questa relazione fra Corte e Avventura che Re Arthur, nel piccolo straordinario romanzo “Sir Gawain and the Green Knight ” (Sir Galvano e il Cavaliere Verde), avendo riunito la corte per il pranzo di Capodanno (“L’anno essendo così giovane che la notte appena trascorsa l’aveva visto nascere….”) proclama solennemente che egli “…mai mangerà in una sì nobile occasione di festa finchè non sarà informato in tutti i dettagli di qualche insolita avventura, finora mai raccontata, o di qualche straordinaria meraviglia che egli possa ritenere vera, a proposito di antenati o fatti d’arme o altro tema elevato…… Tale era il costume del Re quando teneva corte….”

Non ci è difficile capire che per il cavaliere medievale come per noi oggi quell’”Altro Mondo” è il mondo interiore profondo, così come la Corte è il nostro Io cosciente e sovrano,  quell’inconscio che ben sappiamo essere popolato di draghi, maghi, mostri e fate, maledizioni e soprattutto tesori da scoprire; è laggiù che si giocano le nostre più vere avventure e battaglie dal cui esito dipende la qualità della nostra presenza attiva nel mondo.

 

Dobbiamo essere Guerrieri perfetti?

Certamente no, non potremmo mai esserlo; il guerriero difende il Giusto ma mai potrà egli identificarsi con il Giusto, proprio perché, come abbiamo visto, il suo stesso agire implica un’infrazione; si ispira al Cielo e si allena per conseguire la “Spada del Figlio del Cielo” (Zhuang Zi, cap. 30, Discorsi sulla Spada), ma non è il Cielo. Agendo in autonomia è sempre esposto all’errore e pertanto, anche quando è una divinità, è sempre profondamente umano.

Nel romanzo sopra citato Gawain ad un certo punto commette una piccola infrazione al suo codice d’onore, accettando un aiuto per proteggersi la vita in una situazione in cui è quasi sicuro di essere ucciso. In realtà sopravvive e si rimprovera pesantemente di questa sua debolezza; il suo “mentore” o “supervisore”,  che dietro le quinte ha seguito tutta la vicenda, lo scuote da questa recriminazione dicendogli più o meno così: “E’ vero, hai commesso una scorrettezza, per un momento la tua fede non ti ha sorretto, ma non è stato per qualche secondo fine o altra macchinazione ma per amore della tua vita, il che è meno biasimevole”

E’ questo amore per la vita che, di qualità diversa dalla paura della morte, pur non potendo mai cancellare le nostre manchevolezze, ci permette di ripararne i danni senza fermare il nostro processo evolutivo e mantenendo una sana nota di leggerezza; quando Gawain, tornato a corte, mostra la cintura che aveva accettato come amuleto protettivo e ancora una volta  se ne rimprovera, il re e la corte accolgono la sua esternazione con una gran risata e Arthur dichiara che da quel momento tutti i membri della fratellanza cavalleresca porteranno una cintura come quella in suo onore.

Estetica marziale, la bellezza Taiji

In generale è ben difficile definire la bellezza; alla luce della mia esperienza personale mi sento di dire che il bello sembra accendere in noi un processo di aggiustamento che ci porta a sentirci più “noi stessi”. In relazione a quanto detto sopra possiamo comprendere alcuni aspetti dell’estetica marziale e in particolare di quella del Taiji.  Il gesto marziale esprime bellezza innanzitutto come visibile conformità fra l’interiorità del praticante e la sua espressione esteriore nel momento stesso in cui viene eseguito.  In secondo luogo esprime appropriatezza fra scopo e gesto, fra risultato e impiego di forza, una sorta di Eleganza sobria che evita l’eccesso e l’ostentazione, un po’ come un abito adeguato alla persona che lo indossa e alle circostanze, qualcosa che attira l’attenzione e lascia un segno a livello subliminale pur potendo passare apparentemente inosservato, entrando in risonanza con quel senso della bellezza che è nel cuore di ognuno e che viene sottilmente invitato a risvegliarsi.  Quando eseguiamo  la forma Taiji in gruppo ognuno occupa pienamente il suo spazio , sempre consapevole e rispettoso di quello degli altri e questo evoca un’altra sfumatura della bellezza connessa alla percezione di un ritmo unico che sostiene una molteplicità di espressioni simili ma pur diverse. Fin qui, forse, l’estetica marziale si avvicina a quella di altre arti nobili. C’è forse un altro aspetto  che  mi pare  più caratteristico: il gesto marziale “porta a termine” , ha la bellezze dell’essenziale e del “compiuto” non lasciando nulla a metà, ha qualcosa di irrevocabile, risolve una tensione implicita nel suo prepararsi o nel contesto in cui viene eseguito, come il colpo di Indra che libera le Acque e fa scorrere di nuovo la vita suscitando nella Terra, possiamo ben immaginarlo, un profondo sospiro di sollievo. Certamente anche un colpo di pennello su un foglio è irrevocabile, ma possiamo pur sempre cambiare foglio, mentre il gesto marziale primordiale o non viene fatto o, se viene fatto, cambia definitivamente il corso degli eventi. Così ad esempio quando eseguiamo la sequenza della forma rievochiamo in noi stessi e in chi ci osserva con attenzione quell’evento primordiale generando  continuamente una tensione che continuamente si risolve nel portare a termine il gesto, mai troppo pieno, mai troppo vuoto, sempre risolutivo. Ad ogni passaggio manteniamo il ritmo e il flusso mettendo costantemente in discussione il nostro equilibrio e il nostro allineamento; con l’energia residua  del movimento precedente risolleviamo il corpo dalla sua naturale inerzia e lasciandolo affondare nella successiva postura generiamo nuova energia. Questa è una bellezza che non eccita le emozioni, piuttosto le calma nel rinnovarsi della sensazione della vita che scorre e del nostro partecipare attivo a questo flusso, al punto che, trascinati dalla passione per la nostra arte, potremmo forse definire il gesto Taiji e qualunque gesto marziale eseguito con pienezza un’espressione visibile del “Giusto” universale.

 

Bibliografia:

Bibliografia:

Wile “Lost TaiJi classics from the late Ch’ing dynasty”, State University of New York Press, 1996

Zhuang Zi” Adelphi ed., 1982

C.Larre – E. Rochat De la Vallee “Huang Di Nei Jing Ling Shu”, Jaca Book, 1994

A.Crisma – “Il cielo, gli uomini” Lib. Ed. Cafoscarina, 2000

F.Jullien “Nutrire la vita senza aspirare alla felicità”, Raffaello Cortina ed., 2006

G.Dumezil “Le sorti del guerriero”, Adelphi, 1990

J.Hillman “L’Anima del Mondo e il pensiero del Cuore”, Adelphi, 2002

Sir Gawain and the Green Knight”, trad. e commento di  B. Stone, Penguin Books, 1987

Chrétien de Troyes “Perceval” ed. Mondadori , 1992